venerdì 21 aprile 2017

Lo status di RIFUGIATO e la cattiva informazione: facciamo un pò di chiarezza

DI FRANCESCO MURANA - Prendo spunto da un caso approfondito nei giorni scorsi, per chiarire quali siano i requisiti per accedere allo status di rifugiato politico. Talib (nome di fantasia al fine di tutelare la privacy del protagonista del caso) è un giovane ghanese fuggito dalla propria città, dopo aver ucciso involontariamente un proprio connazionale durante una rissa. Approda in Italia nel 2006, chiede il riconoscimento dello status di rifugiato politico, ma l’istanza viene rigettata più volte e nulla riescono ad ottenere i vari avvocati interpellati dallo stesso Talib.

Prima di procedere all’analisi dei requisiti che deve possedere un soggetto per vedere riconosciuto lo status di rifugiato, occorre fare chiarezza in merito ad alcuni vocaboli il cui uso erroneo è molto frequente. Accade spesso che termini come immigrato, profugo e rifugiato siano considerati sinonimi, ma così non è. E’ immigrato regolare colui il quale risiede in uno Stato che non è il suo, ed è in possesso di un permesso di soggiorno rilasciato dalle autorità competenti;

è immigrato irregolare chi non è munito di regolare permesso di soggiorno o chi non lascia il territorio dello Stato pur essendo stato raggiunto da un provvedimento di espulsione.

E’ profugo chi fugge dal proprio paese a causa di conflitti armati, rivolte o catastrofi naturali.

E’ rifugiato chi, a norma dell’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 1951 (Convenzione sullo statuto dei rifugiati), “nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato.” . Giuridicamente, quindi, il rifugiato è un soggetto meritevole di protezione, poiché se tornasse al paese di origine sarebbe vittima di persecuzioni, ossia gravi violazioni dei Diritti Umani commesse per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale.

Il nostro Talib non rientra in quest’ultimo caso, ed è stato probabilmente questo il motivo per cui le sue istanze sono state respinte. Oltre tutto, a norma dell’art. 1 lett. F della stessa Convenzione ”le disposizioni della presente Convenzione non sono applicabili alle persone, di cui vi sia serio motivo di sospettare che hanno commesso un crimine grave di diritto comune fuori del paese ospitante prima di essere ammesse come rifugiati”.

Oltre che per il fondato timore di persecuzioni, lo straniero può essere riconosciuto rifugiato, in base all’articolo 10 della nostra Costituzione, se nel suo paese d’origine gli viene impedito “l’effettivo esercizio delle libertà democratiche.”

Fin qui abbiamo visto chi ha diritto di chiedere lo status di rifugiato, ma chi non può richiederlo? Innanzitutto chi è stato già riconosciuto rifugiato in un altro Stato; chi giunge da uno Stato, diverso da quello di appartenenza e che abbia aderito alla Convenzione di Ginevra e nel quale non ha richiesto il riconoscimento dello status di rifugiato; chi in Italia è stato condannato per delitti contro la personalità o la sicurezza dello Stato, contro l’incolumità pubblica, ovvero reati di riduzione in schiavitù, furto, rapina, devastazione e saccheggio, o comunque connessi alla vendita e al traffico illegale di armi o di sostanze stupefacenti, o, infine, di associazione di tipo mafioso o di appartenenza ad organizzazioni terroristiche; e infine chi ha commesso crimini di guerra oppure contro la pace o contro l’Umanità.

Analizziamo adesso i passi da seguire per ottenere lo status di rifugiato.

L’istanza può essere presentata in qualsiasi momento (non esistono termini di scadenza) presso gli uffici della Polizia di frontiera o all’Ufficio immigrazione della questura. La questura fornisce moduli da compilare con le motivazioni per le quali si richiede lo status di rifugiato, ai quali va allegata copia di un valido documento di identità. In mancanza di questo, si dovranno fornire le generalità all’Autorità di Polizia, indicando anche un domicilio a cui verranno inviate le comunicazioni.

Verranno rilasciate copie della richiesta e della documentazione, quindi si procederà al fotosegnalamento. L’istanza sarà inviata alla commissione territoriale per il riconoscimento dello status di rifugiato, la quale convocherà il richiedente asilo per consentirgli di esprimere i propri timori e motivare verbalmente la richiesta. In attesa della convocazione il questore rilascia un permesso di soggiorno valido per tre mesi e rinnovabile sino alla decisione della commissione. Se la persona è sprovvista di documento di identità, sarà ospitata in un centro di identificazione per un periodo massimo di venti giorni. Alla scadenza di detto periodo, se la commissione non si sarà ancora espressa, il richiedente asilo potrà lasciare il centro e gli verrà rilasciato un permesso di soggiorno valido per tre mesi e rinnovabile sino alla fine del procedimento.

La commissione decide entro tre giorni dall’audizione del richiedente e può:

1) riconoscere lo status di rifugiato;

2) respingere l’istanza, ma riconoscere la sussistenza di un pericolo in caso di ritorno in patria. In questo caso il questore rilascerà un permesso di soggiorno per motivi di protezione umanitaria, valido per un anno e rinnovabile.

3) rigettare la richiesta e di conseguenza il questore intimerà al soggetto di lasciare il territorio nazionale. Contro la decisione negativa della commissione, l’istante potrà presentare ricorso al Tribunale ordinario entro quindici giorni dalla notifica del provvedimento di rigetto.



Di seguito alcuni dati del Ministero dell’Interno, aggiornati a febbraio 2017.


























FRANCESCO MURANA - Penalista palermitano con tante passioni che vanno dal pianoforte, alla scrittura, passando per il teatro, il video editing ed il doppiaggio. Volontario della Croce Rossa Italiana dal 2004, è stato fra l’altro impegnato per oltre tre mesi nelle operazioni di soccorso della popolazione abruzzese colpita dal sisma del 2009. Dal 2010 ha approfondito lo studio del Diritto Internazionale Umanitario e nel 2012 ha conseguito il titolo di Consigliere qualificato DIU per le Forze Armate, per le quali svolge attività di docenza. Nel 2013 si è specializzato in International Disaster Response Law presso l’International institute of humanitarian law e dal 2015 è docente nei corsi delle allieve Infermiere Volontarie della C.R.I..

giovedì 20 aprile 2017

Autorizzazione al figlio minorenne per la gita fuori porta. Cosa fare in caso di disaccordo dei genitori separati?

DI ROBERTA DI VINCENZO - Cosa deve fare e a chi deve rivolgersi un genitore separato che, avendo espresso il proprio consenso per far partecipare il figlio minorenne ad un campo estivo, si scontra con il disaccordo dell’altro coniuge?

I rimedi a questi quesiti sono di due nature differenti: uno appartiene al buon senso, l’altro è giuridico.

In riferimento al primo, ahimè, è all’ordine del giorno assistere alle continue liti e alle infinite battaglie tra ex - coniugi che, avendo messo un punto definitivo al loro matrimonio, non riescono a contenere l’astio che i problemi della rottura comporta. Purtroppo, però, le disarmonie dei genitori, si sa, ricadono in primis sui figli, i quali, non solo fanno fatica ad accettare la rottura del rapporto tra mamma e papà, ma devono avere anche la pazienza di sopportare tutti gli aspetti negativi che ne derivano.

Per tali ragioni, si consiglia vivamente ai coniugi il dialogo.

Ebbene sì, potrà sembrare a prima vista un rimedio semplice e alquanto banale ma, se accoglierete questo semplice consiglio, sarete capaci di sentire il senso di leggerezza e di pace interiore che l’armonia promana, per non parlare dei risvolti benefici nella vita del fanciullo. Questi, difatti, assistendo alla complicità tra i genitori, si sentirà protetto e sicuro nell’affrontare la propria vita dentro e fuori il nucleo familiare.

Nel caso in cui il buon senso soccomba dinanzi ad altre ragioni, il nostro ordinamento giuridico viene in soccorso dei genitori, prevedendo dei rimedi esperibili dinanzi al Tribunale in persona del Giudice Tutelare.

Si faccia però attenzione al fatto che questo più che un rimedio potrebbe essere definito come una extrema ratio, ovvero un caso limite cui approdare se non si vedono altre soluzioni all’orizzonte.

Il giudice tutelare, difatti, opera nell’ambito della volontaria giurisdizione, area deputata alla gestione di un negozio o di un affare per la cui conclusione è necessario un giudice, terzo e imparziale, che collabori con le parti allo scopo di costituire il rapporto giuridico, in quei casi in cui la legge non consente ai privati di provvedervi in maniera autonoma. Si tende, pertanto, a qualificarla come attività strutturalmente e funzionalmente di tipo amministrativo.

In tale ambito, il giudice tutelare svolge un ruolo di vigilanza, gestione e controllo sulle situazioni che coinvolgono le fasce deboli (minori e incapaci), talvolta, anche su istanza di altri organi giudiziari.

In particolare, tale organo giudiziario è deputato al controllo dei rappresentanti dei soggetti che hanno una ridotta o assente capacità di agire, ovvero i minori emancipati e gli inabilitati da una parte, e i minori di età e gli interdetti dall’altra.

A sostegno di quanto sopra esposto, il co. 2 dell’art. 316 c.c., sulla responsabilità genitoriale, dispone che in caso di contrasto tra i genitori negli atti di ordinaria amministrazione inerenti all’educazione del figlio, ciascuno dei due può adire l’autorità giudiziaria senza formalità, indicando i provvedimenti che ritiene idonei.

Nel caso che ci occupa, quindi, il genitore per ottenere la suddetta autorizzazione potrebbe depositare un’istanza nelle forme del ricorso (cui dovrà apporsi marca da bollo di euro 27,00, ed esente da contributo unificato) presso la cancelleria del Giudice Tutelare del Tribunale o della sezione distaccata competente per territorio in relazione alla residenza del minore.

La predetta istanza dovrà contenere i motivi posti a fondamento della richiesta, nella specie, il genitore potrà descrivere la finalità socio culturale della gita, sottolineando l’importanza paideutica di tale attività, dal momento che l’ente organizzatore del campo estivo è una associazione educativa che si occupa di tutela e promozione dei diritti dell’infanzia.

Al deposito dell’atto introduttivo, segue una fase istruttoria, che prevede l’audizione delle parti interessate e l’acquisizione di elementi, culminando, infine, con la decisione mediante decreto che potrà accogliere o rigettare l’istanza.

Contro i decreti del giudice tutelare si può proporre reclamo con ricorso al Tribunale ovvero dinanzi alla Corte di Appello (se il decreto è stato emesso dal Tribunale), che si pronunceranno in camera di consiglio. Tale reclamo deve essere presentato entro e non oltre il termine perentorio di dieci giorni dalla comunicazione del decreto se è dato nei confronti di una sola delle parti , o dalla notificazione se è dato nei confronti di più parti, così come disposto dall’art. 739 c.p.c..

In conclusione, si ricordi che quanto sopra esposto persegue una finalità meramente paradigmatica volta ad indirizzare e consigliare coloro che vivono una situazione analoga a quella che abbiamo appena analizzato, stante che prima di agire in giudizio bisogna sempre consultare un esperto professionista perché, badate bene: ogni singola vicenda presenta sempre dei tratti peculiari che le distinguono dalle altre!
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ROBERTA DI VINCENZO - Nata a Palermo nel 1987, dopo la maturità classica, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dove si laurea nel 2014. 

Nel 2017 consegue la specializzazione in diritto tributario presso la Scuola di Specializzazione e di Alta formazione del difensore tributario edita dall’Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati tributaristi italiani (UNCAT). Amante dei libri e dell’arte della scrittura, è agli esordi nelle vesti di redattrice per il blog del Consultorio dei Diritti Mif. 
Crede nell’importanza dell’informazione come mezzo di supporto necessario alla collettività capace di risolvere i problemi in modo libero e consapevole.

Parola d’ordine per la Pubblica Amministrazione: collaborare con il cittadino!

DI ROBERTA DI VINCENZO - Il termine “collaborare” deriva dal tardo latino ed è formato dal verbo labor preceduto dalla preposizione cum, da cui lavorare insieme.

Come si evince dal suo significato originario, tale concetto presuppone un’idea di condivisione che unisce due o più soggetti al fine di raggiungere un risultato comune.

In ogni ambito della nostra vita la collaborazione è un aspetto di primaria importanza perché ci consente di poter condividere la mole di lavoro che quotidianamente siamo chiamati a svolgere.

Tuttavia, non dobbiamo pensare che questo gesto appartenga esclusivamente alla sfera affettiva e sentimentale di ciascuno di noi ma, a diversi livelli, la collaborazione si presenta come uno strumento imprescindibile per la vita socio - economica della comunità.

Ebbene, la collaborazione, quale strumento - chiave delle nostre relazioni sociali è posta a fondamento della convivenza civile e ne investe tutte le sue aree di appartenenza, da quella privata a quella pubblica.

Per tale ragione, a livello amministrativo, il legislatore ha basato l’intero assetto organizzativo sull’importanza dell’interazione e della comunicazione ad opera delle singole pubbliche amministrazioni.

Si sa che la macchina burocratica soffre per la farraginosità dei suoi meccanismi e che, spesso e volentieri, non è per niente semplice districarsi agevolmente nei suoi meandri. Quante volte il cittadino per il disbrigo della pratica più semplice è costretto ad interminabili ore di fila dietro agli sportelli per poi sentirsi dire che manca questo o quel documento e che : “Mi spiace, deve tornare domani!”.

La negligenza, figlia della mancanza totale di comunicazione e di collaborazione tra gli organi della pubblica amministrazione, può dar vita a spiacevoli vicende.

È quanto è accaduto ad uno sventurato e smemorato conducente di ciclomotore che, ai controlli di routine effettuati sul mezzo nel quale circolava, non esibisce la patente di guida alla richiesta degli agenti verificatori, perché, sbadatamente, l’aveva lasciata a casa.

In sede di verifica, gli stessi organi di polizia avevano controllato, attraverso l’accesso ai pubblici registri, l’esistenza e la validità del documento ma avevano invitato lo stesso il mal capitato a recarsi presso un ufficio di polizia per esibire il documento di guida, così come stabilito dall’art. 180, co. 8, Codice della Strada.

Lo smemorato motociclista non cogliendo bene l’invito, non si presenta nei luoghi indicati dalla polizia, e così ben presto, vede recapitarsi presso la propria abitazione il verbale contenente una multa per il mancato ottemperamento degli obblighi di legge, di cui sopra, non restandogli altra soluzione che adire l’autorità giudiziaria per sentire dichiarare l’illegittimità del verbale e contestualmente chiederne l’annullamento.

Fortunatamente per il cittadino, il Giudice di Pace ha accolto le motivazioni dedotte in sede di ricorso, ribadendo che l’art. 43 del D.P.R. n. 445/2000, regolando l’accertamento d’ufficio ad opera della Pubblica Amministrazione, dispone che sia le pubbliche amministrazioni che i gestori di pubblici servizi, sono tenuti ad acquisire d’ufficio le informazioni oggetto delle dichiarazioni sostitutive, nonché tutti i dati e i documenti che siano in possesso delle pubbliche amministrazioni previa indicazione, da parte dell’interessato, degli elementi indispensabili per il reperimento delle informazioni o dei dati richiesti, ovvero ad accettare la dichiarazione sostitutiva prodotta dall’interessato.

Questi accessi diretti rispondono ad esigenze di rilevanza dell’interesse pubblico in modo da semplificare procedure ritenute superflue.

Nello specifico, i controlli d’ufficio che si svolgono per accertare e verificare la veridicità delle autodichiarazioni dei cittadini sono funzionali e finalizzati alla semplificazione del sistema amministrativo, in modo tale da rendere il servizio al cittadino più efficiente ed economico, perché la velocità dimezza sicuramente i costi.

Tuttavia, vediamo come, nella vicenda appena descritta, una svista e una mancanza di comunicazione hanno attivato un’altra dispendiosa macchina pubblica che è quella della giustizia che non tutti possono permettersi a livello economico.

Morale della favola? Se gli agenti avessero correttamente collaborato correttamente applicando il principio di leale collaborazione con il cittadino non ci sarebbe stato bisogno di inviare al motociclista un ulteriore verbale nel quale si chiedeva un inutile pagamento e un inutile obbligo.

Il difetto di comunicazione alla base degli agenti verificatori ha innescato una reazione a catena a discapito del mal capitato cittadino il quale, per non pagare una multa non dovuta, è stato costretto a ricorrere alle vie legali.

Alla luce della storia appena narrata, sorge spontaneo riflettere sulla capacità delle nostre istituzioni a preservare e garantire l’interesse del cittadino e dell’intera comunità, nel rispetto della normativa vigente.

Tuttavia, bisogna restare ottimisti e agire all’insegna della collaborazione con la Pubblica Amministrazione, tenendo a mente che il vero cambiamento parte sempre dal basso!
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ROBERTA DI VINCENZO - Nata a Palermo nel 1987, dopo la maturità classica, si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dove si laurea nel 2014. 

Nel 2017 consegue la specializzazione in diritto tributario presso la Scuola di Specializzazione e di Alta formazione del difensore tributario edita dall’Unione Nazionale delle Camere degli Avvocati tributaristi italiani (UNCAT). Amante dei libri e dell’arte della scrittura, è agli esordi nelle vesti di redattrice per il blog del Consultorio dei Diritti Mif. 
Crede nell’importanza dell’informazione come mezzo di supporto necessario alla collettività capace di risolvere i problemi in modo libero e consapevole.